Nell’odierna cultura alimentare occidentale il termine “proteine” è sinonimo di alimento carneo. Forse perché associamo i muscoli alla stazza dei bovini o probabilmente a causa di quel residuo di cultura post-bellica che fatica a realizzare l’avvenuta sostituzione della carenza con l’opulenza. In realtà, escludendo alcune eccezioni etniche, di rado la carne è stata per l’uomo fonte elettiva di proteine. Anche la famigerata dieta preistorico-paleolitica, era in buona parte rappresentata da attività di raccolta di bacche e radici spontanee, mentre la caccia di grossi animali era molto limitata e la digestione dei tessuti muscolari, specialmente quando non venivano cotti, molto impegnativa.
Ciò non significa che le fonti alimentari animali fossero del tutto assenti, ma erano maggiormente rappresentate da mammiferi di piccole dimensioni e invertebrati, meno rischiosi da catturare. Quindi da dove prendiamo le proteine? La risposta potrebbe essere inaspettata, specialmente quando consideriamo le abitudini italiane.
Da dati ufficiali emerge chiaramente che la fonte nutrizionale più significativa di proteine, nel Bel Paese, è data dal gruppo alimentare di Cereali e derivati. Sorpresi? Alimenti che nell’immaginario collettivo sono associati ai carboidrati rappresentano in realtà una fonte importantissima per l’apporto proteico. Infatti, i cereali, incluso il frumento di pane e pasta, possono contenere fino al 14% in peso di proteine. Si tratta quindi di una fonte di nutrienti spesso sottovalutata, considerato anche il cliché che vuole l’alimentazione italiana basata sulla pasta. Parte delle proteine possono essere perse durante il processo di lavorazione dei cereali che porta alla rimozione germe. Ecco un buon motivo per non farsi mancare fonti integrali. Possiamo anche decidere di scegliere il grano duro al posto di quello tenero per ottenere un maggior equilibrio proteico e di fibre.
Tra i consumi degli italiani il gruppo alimentare di carne e derivati si attesta al secondo posto. Si tratta di un’abitudine ormai trasversale nei paesi occidentali che sta contagiando sempre più quelli in via di sviluppo. In queste regioni del mondo il consumo carneo è percepito come indice di benessere, dunque le popolazioni che si aprono allo sviluppo economico adeguano le proprie preferenze al modello occidentale. Un simile fenomeno è osservabile nelle nuove generazioni dell’Est asiatico che tendono a sacrificare le abitudini alimentari della tradizione a favore della “fettina di carne”, poiché sempre più influenzate da un modello globale.
Non è stato sempre così. In particolare, nell’Italia di qualche decennio fa il modello mediterraneo era basato principalmente su fonti vegetali. Il consumo parco giornaliero veniva abbandonato solo nelle occasioni speciali della domenica o del dì di festa. La farina bianca, altamente conservabile e nutriente, era un lusso che pochi potevano permettersi e, comunque, sempre in modo limitato. La dieta mediterranea era un modello fatto di introiti calorici modesti, alimenti vegetali poco lavorati e cibi carnei poco presenti.
Le attuali raccomandazioni per la salute esortano a limitare il consumo di carne; non si tratta solo di una questione salutistica ma anche ambientale e chiaramente economica. In uno scenario in cui i paesi in via di sviluppo, come ad esempio la Cina, spingono verso un modello alimentare occidentale, chi fornirà tutti gli alimenti carnei necessari a sostenere il trend, e a quale prezzo per altre popolazioni disagiate? Come ci si potrebbe aspettare, il consumo di legumi in Italia è quasi irrilevante. L’apporto di proteine da legumi rappresenta solo l’1,4%, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità ne consiglia vivamente il consumo. Ottima fonte di proteine, i legumi potrebbero frenare la pandemia di obesità in Occidente e la carenza nutrizionale nei paesi in via di sviluppo mediante coltivazioni ecosostenibili.
Anche la frutta secca oleosa, se consumata giornalmente, potrebbe fornire una buona frazione proteica, facilmente completabile con cereali e legumi. Semi e noci, infatti, possono contenere fino al 50% in proteine e rappresentare alimenti utili a ridurre il rischio cardiovascolare.
Quando si parla di proteine, non si può non accennare al concetto di qualità proteica. Esistono diversi sistemi con cui viene giudicata la capacità di una proteina di essere convertita in strutture corporee. Molti di questi sistemi analitici, non scevri da grossi limiti interpretativi, nascono più da un’esigenza accademica di classificare varie fonti alimentari. Difficilmente si tratta di informazioni utili in un contesto sociale come il nostro, dominato più dall’abbondanza che dalla carenza nutrizionale. Si presume che la proteina più utile nutrizionalmente sia quella il più possibile simile alla composizione delle nostre proteine corporee. Escludendo il cannibalismo, la prima fonte proteica per qualità dovrebbe essere data dal latte, poiché alimento destinato alla crescita. Si evince, quindi, che la carne non è l’alimento dalla qualità proteica più alta, che il latte ha un’alta qualità proteica solo perché serve all‘accrescimento specie specifico e che le fonti vegetali rappresentano un perfetto bilanciamento tra qualità e quantità.
Non è importante introdurre proteine il più possibile simili alle nostre riserve corporee ma apportarne una varietà sufficiente . Dallo studio della fisiologia, infatti, si deduce che le proteine non possono essere assorbite come tali ma devono essere scisse nelle loro componenti. In questo modo l’origine alimentare sarà del tutto ininfluente poiché i mattoni da cui sono composte, sono i medesimi sia nel regno animale che vegetale. Gli alimenti vegetali del gruppo frutta, verdura e ortaggi apparentemente non rappresentano una fonte rilevante di proteine. Invece, nella dieta italiana, raggiungono fino al 6% dell’apporto proteico giornaliero.
Il vantaggio di una così ampia disponibilità alimentare potrebbe essere sfruttato per non sottovalutare nessuna fonte proteica vegetale, limitando gli alimenti carnei in tutte le forme, ormai simbolo di un’abbondanza anacronistica e poco rispettosa della salute, dell’ambiente e delle popolazioni che non hanno la possibilità di scegliere tra varie opzioni alimentari.
Dr. Gianluca Rizzo - PhD - Biologo Nutrizionista Biologo Nutrizionista, Dottore di Ricerca in Biologia e Bioteconologie Cellulari. Master in Integratori Alimentari, Perfezionamento in Nutraceutica. Docente in corsi di formazione ed ECM, fa parte del corpo docenti del Master Universitario in Fitoterapia e del Master in Fitobiologia, Nutraceutica e Prodotti per la Salute di Messina. Autore tuttora attivo, come ricercatore indipendente, di pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali a revisione paritaria.
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